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ERMENEUTICA ED ESEGESI DEI GIUDEO-CRISTIANI
(Da "Il cristianesimo di fronte ad una Bibbia segreta") Dopo l'evento Pasquale (aprile del 30 d.C.) della risurrezione del crocifisso Gesù un'attività importante dei più colti discepoli della prima ora provenienti dall'ebraismo, alla luce della realtà del Risorto, fu di cercare di rendere palesi le profezie relative a Cristo ed alla sua vita, alla nascita, all'infanzia del divino bambino, alla predicazione ed alla risurrezione che, pur se esistenti in qualche modo nelle Scritture, erano di fatto velate e non comprensibili al primo loro approccio.

Puech Charles-Henri, in "Storia delle religioni" (Laterza) scrive: "...i missionari dovettero trasformarsi in teologi e apologeti, ripiegarsi sui testi biblici, definire la loro fede di fronte alle diverse tendenze del giudaismo: si trattava di uno sforzo intenso di riflessione... riuscì in capo a mezzo secolo a imporre le proprie convinzioni teologiche ed ecclesiologiche in gran parte grazie a una serie di circostanze esterne; essa, infatti, era stata costretta dall'irrigidirsi del giudaismo, dopo la caduta di Gerusalemme nel 70, a prendere coscienza della propria indipendenza nei confronti della religione sorella."

Circa quell'irrigidirsi è da ricordare l'uccisione del Vescovo Giacomo e del diacono Stefano tanto che sulla distruzione di Gerusalemme Eusebio (XXIII 19) concorda, col parere di Giuseppe Flavio il quale non dubitò che "Tutto ciò avvenne perché fosse vendicato Giacomo, il Giusto: egli era fratello di Gesù, chiamato il Cristo, e, sebbene giustissimo, i Giudei l'uccisero." (Ant. Giud. XX, 197, 199, 203 - Eusebio XXIII 19)

L'ebraismo in quegli anni fu scosso, infatti, dalla figura di Gesù di Nazaret; di lui l'ebreo Flavio Giuseppe (37-103 d.C.), testimone autorevole di quel I secolo, dice: "In quel tempo visse Gesù, uomo sapiente - se lo si può dire uomo (anche se il testo può essere stato oggetto di manomissioni). Egli operò azioni degne di ammirazione e fu maestro di coloro che accolgono con gioia la verità. Attrasse a sé molti Giudei e pagani. E quando su accusa di molti dei nostri notabili, Pilato lo condannò alla morte di croce, quelli che lo avevano amato non fuggirono, e la loro stirpe, che da lui trae il nome di cristiani, non è venuta meno fino ai nostri giorni." ("Antichità giudaiche", XVIII 3,3), ma che viene anche dibattuto se non trattasi di una glossa aggiunta postuma da cristiani.

La messianicità del Cristo fu l'oggetto della predicazione come risulta dai ripetuti richiami negli Atti degli Apostoli (2,36; 3,18-20; 5,42; 8,5.12; 9,22; 17,3; 18,28; 24,24; 26,23), sempre con riferimento alle scritture e ciò era fatto con più intensità nei riguardi degli ebrei, dei più sapienti e di chi doveva proseguire la corretta tradizione.
Riporto ad esempio quanto in "Recognitiones di Pseudo Clemente" (Capitolo I 74) ove San Pietro dice a Clemente, che sarà poi suo successore a Roma: "Ti ho anche aperto la mente al significato più nascosto di tutta la Legge scritta, capitolo per capitolo, quando c'era bisogno di farlo, senza tenerti nascosti i vantaggi della tradizione."

C'è, poi, tutta una tensione ed un alone profetico sui giorni dalla nascita di Gesù fino al suo battesimo con episodi che si trovano soltanto in Matteo ed in Luca con testi che non hanno quella concordanza assoluta usuale dei sinottici.
Al riguardo nella sua "Storia dell'interpretazione biblica" (Piemme 99) Graf Reventlow Henning osserva:

  • "Il prologo del Vangelo di Matteo, con i racconti dell'infanzia di Gesù, ha sollevato per l'indagine scientifica non pochi enigmi. Poiché di nessuno degli episodi narrati si può dimostrare la storicità, e poiché lo stile è leggendario, occorre postulare dietro ad essi un'interpretazione teologica di Matteo, oppure la comunità cristiana, qualora Matteo abbia preso questi racconti dalla tradizione orale."
  • E sul come in tali brani evangelici l'evangelista tratta le citazioni che inserisce nel testo: "Gli esegeti sono sconcertati... 'Sarà detto Nazareno'. A quanto pare nemmeno Matteo sapeva da dove proveniva la frase, poiché qui parla al plurale: 'Quanto è stato detto dai profeti'. Da confrontare con questo passo sono i versetti 21,4s e 27,9, due citazioni del libro di Zaccaria, una delle quali è introdotta senza indicazione del nome del profeta..."
Questi Vangeli raccontano fatti che tendono a dimostrare come tali eventi, così come si sono svolti, avevano stretta connessione con le attese promanate dalle Scritture, mentre Marco che va al sodo per l'annuncio ai pagani, inizia il proprio Vangelo dal battesimo di Gesù.
Attraverso, però, la lettura col metodo dei segni dei brani dell'Antico Testamento che i Vangeli stessi riportano in concomitanza agli eventi che raccontano, quegli episodi risultano invece profetizzati con particolari.

Gli ebrei che non divennero cristiani non ritenevano Gesù il Messia, perché non aveva liberato Israele dai romani, né aveva ricevuto l'unzione con l'olio sacro dei re o dei sacerdoti, quindi per loro era un privato cittadino crocifisso dai Romani e che portava ad insegnamenti non ortodossi.
Una prova che fosse il Messia poteva esserci solo se i segni da lui compiuti fossero profetizzati nella Torah e nelle Sacre Scritture; da qui la necessità dei primi discepoli di approfondita ricerca in queste e la scelta del racconto nei Vangeli di episodi collegabili a profezie.
La perduta cognizione d'una lettura per decriptazione alla lunga può essere stata una causa d'incomunicabilità tra ebraismo e cristianesimo, pur se provenienti dalle stesse Scritture; infatti, il solo testo esterno non fu in grado di rispondere all'insieme del sentire.
Ecco che gli ebrei, ormai in diaspora si strinsero in rigida differenziazione dalla già ritenuta setta cristiana, in quanto il trapelare di profezie dal testo esterno del Canone non risultava per loro da solo sufficiente, mentre, l'estese profezie interne, se lette almeno con il metodo "al tikrei" non avrebbero retto alla realtà del compimento della promessa in Gesù di Nazaret.
Per contro, in campo Cristiano nel I secolo d.C. i cultori della parola provenienti dall'ebraismo della chiesa "ex circumcisione" che avevano tali nozioni le hanno riversate nei Vangeli, ma poi il successo tra i pagani, con l'afflusso delle masse di catecumeni ed il concomitante uso del greco, del latino e delle lingue locali, rese possibile che il metodo cadesse in dimenticanza nella Grande Chiesa.
I pagani erano interessati all'annuncio degli apostoli della risurrezione del Cristo e non era più essenziale convincerli del compimento di tutte le profezie ebraiche e poi, era impossibile far loro compiere l'intera iniziazione alle scritture sul tema del Messia e sulla rivelazione tutta intera.
Questo metodo è da ritenere che nel I - II secolo d.C. sia rimasto nella ristretta cerchia dei più sapienti delle comunità giudeo-cristiane, comunità, sempre più marginali nella realtà ecclesiale cristiana.
Ireneo (Adv. Haer. 1,7,4.) ed Origene (S Chr 147,245.275) difesero il simbolismo delle lettere, dei numeri, della croce, del Nome.
Vari furono gli elementi del simbolismo giudeo-cristiano (Emanuele Testa, "La fede della Chiesa madre di Gerusalemme" - Ed Dehoniane):
  • l'uso della "lingua sacra";
  • "numeri sacri";
  • l'impressione di sigilli, detti "sfhragis" (alberi, aratri, barche) per indicare che il segnato apparteneva al proprio gruppo;
  • la frequenza di "nomina sacra", di Dio e di Cristo;
Nell'applicare tali elementi furono usate regole note anche ai rabbini, quali:
Dice Emanuele Testa: "I Giudei convertiti al cristianesimo fecero germogliare questi semi biblici già fecondati nella mistica rabbinica. Per questo si studiò la natura delle singole lettere (Ps. Tom. 6,3), la loro forma, i loro angoli, i loro segmenti (Ps. Mt 31,2) e si scrissero veri trattati sull'intero alfabeto... ebraico." (Vedi Eusebio in Praep. Ev. 10,5; Esichio, o Attanasio, o Ephraim - De Titul. Ps. 144; Girolamo, Epist. XXX, Ad Paulam; Giuseppe, Hypomnestikon 1,26).

S. Girolamo nella lettera 30 spiega a Paola la sacralità dell'alfabeto ebraico (PL 22,441-5) e, per consolare Eustachio della morte della madre, si accinge a tradurre le lettere mistiche di Pacomio (PL 23,66-106).

Leggo in Bagatti nel libro "All'origine della Chiesa" (III.6) che S. Girolamo: "per fare il lavoro di traduzione aveva approfittato dell'occasione che gli si presentava di avere fra mano non solo le lettere inviategli da Silvano prete di Alessandria, ma anche di trovare un aiuto nel sacerdote Leonzio che le portava, probabilmente esperto in questo genere di linguaggio... Pacomio ed i suoi intimi ritenevano queste lettere come una rivelazione angelica, ma comunque erano dei mezzi mnemonici giudicati adatti a raggiungere l'unione con Dio".

Eusebio riporta discussioni basate su parole ebraiche:
  • quella sul valore e significato delle lettere riferito nella "Praeparatio evangelica" (PG 21, 787-90);
  • sulle 4 lettere che compongono il nome di Dio (PG 22, 387s e 677s);
  • sulla spiegazione su "Iah" applicata a Cristo secondo il salmo 67 (PG 23, 685s);
  • nel salmo 108,10 (1331s) sulla frase "Moab è il bacino per lavarmi" dice "Mi ricordo d'aver ascoltato un ebreo che mi dette questa spiegazione sotto segreto: che cioè si doveva capire misticamente la generazione di Cristo secondo la carne."
Ho allora voluto vedere bene quel versetto:

Salmi 108,10 - "Moab è il catino per lavarmi, sull'idumea getterò i miei sandali, sulla Filistea canterò vittoria."




"Tra i viventi lo portò il Padre in pienezza . Si lanciò () in un corpo a chiudersi giù . Fu dall'alto in un uomo . In una donna () il Potente fu la rettitudine a inviare . Dall'alto fu dello Altissimo il soffio potente ad accenderla completamente . Venne () nel corpo a portarsi in vista di agire ."

"Tra i viventi lo portò il Padre in pienezza. Si lanciò in un corpo a chiudersi giù. Fu dall'alto in un uomo. In una donna il Potente fu la rettitudine a inviare. Dall'alto fu dell'Altissimo il soffio potente ad accenderla, completamente. Venne nel corpo a portarsi in vista di agire."

Queste è un'ulteriore prove a favore della lettura con i segni.
Nel Cristianesimo dei primi secoli poi si trova l'affermazione che la Legge, i Profeti e i Salmi contengono il mistero del Cristo in:

Kerygma Petri: "Noi aprimmo i libri dei profeti che avevamo; i quali nominano Gesù Cristo in parte mediante parabole, in parte mediante enigmi, in parte in maniera garantita e con parole chiare; vi trovammo la sua venuta, la morte e la croce e tutte le altre pene che gli infissero i Giudei, e la risurrezione e l'ascensione al cielo, prima della restaurazione a Gerusalemme, come tutte cose erano state scritte, che cosa egli doveva patire e che cosa dopo di lui doveva accadere." (Clem. Al. Strom VI 15, 128, 1)

Il che conferma che oltre le profezie che si leggono direttamente dal testo esterno in parte in maniera garantita e con parole chiare altre s'ottengono mediante parabole ed enigmi; e negli enigmi entra la traduzione coi segni.

Epistola di Barnaba: Secondo cui le Scritture contengono misteri e parabole (6,10), prevedono gli accadimenti del Cristo in figure che sono state scritte, ma nello Spirito (13,5) e in altri brani riporta che nelle Sacre Scritture si debbono guardare i "tipi" ed al riguardo dice Graf Reventlow: "Sebbene Barnaba in questo contesto utilizzi più volte il termine 'tipo' (7,3.7.10.11; confr. anche 8,1; 12,2.5.6.9; 13,5) , questo metodo s'avvicina maggiormente all'allegoria. Si parla di tipologia quando i tipi hanno anch'essi un loro significato storico, e non è questo il caso." Cioè la parola "tipo" non ha in Barnaba il senso esclusivo dato successivamente dagli esegeti sulla base di quanto era loro noto; gli esegeti, infatti, non hanno mai pensato d'utilizzare "tipi" nel senso stretto della parola, cioè di lettura per lettere, come poi evidenzierò per altri successivi testi e quindi l'idea d'una lettura per decriptazione non è loro venuta in mente.

Pistis Sophia: Dichiara che la forza operante nei profeti dell'Antico Testamento aveva parlato con tipi e misteri; ma quella forza era lo spirito di Cristo, che nel Signore risorto offre ora con parole chiare la soluzione degli enigmi del passato. (A.Krugerud, "Die Hymnen der Pistis Sophia", Oslo 1967)

Giustino: Per quest'autore il disegno di Dio è stato rivelato nelle scritture in modo oscuro, per volontà stessa dei profeti, che hanno fatto intenzionalmente ricorso a parabole e tipi. (Dial XC 2) Velato era soprattutto l'annuncio del mistero di Cristo mostrato in parabole e annunciato in forma segreta (Dial CXV 1) e dice che: noi Cristiani non potremmo comprendere le rivelazioni contenute nelle Scritture, se per volere di Colui che ha voluto le rivelazioni non avessimo ricevuto la grazia di comprendere. (Dial CXIX 1)

Ippolito: Per quest'autore vale quanto detto per Giustino.
Per la parola "tipi" usano quindi non solo i "tipi" come avvicinamenti a due personaggi o a due situazioni per una comune proprietà, ma anche lettere in senso stretto che sono appunto il mezzo da seguire per arrivare alla profezia, garantite dalla parola di Gesù che dice: "In verità vi dico: finché non sia passato il cielo e la terra, non passerà neppure uno iota o un segno della legge." (Matteo. 5,18) e "...scrutate le Scritture... ebbene sono proprio esse che mi rendono testimonianza." (Giovanni 5,39)

Manlio Simonetti ed Emanuela Prinzivalli nel testo "Storia della letteratura cristiana antica" (Piemme 99), circa "il Dialogo col giudeo Trifone" (forse un rabbino), evidenziano in Giustino una " distinzione tra "typoi" e "logoi" che implica un importante criterio ermeneutico per l'interpretazione allegorica della Scrittura: le parti narrative della scrittura sono; secondo lui "typoi", cioè trattano di fatti realmente accaduti che, a un secondo livello di lettura, contengono la prefigurazione di fatti futuri, i logoi, invece sono le profezie il cui unico livello di lettura e cristologico perché si compiono appunto in Cristo."

Anche per Ippolito (martirizzato nel 235 d.C.) è fatto lo stesso discorso: "Nelle parti storiche narrative i typoi si sovrappongono come secondo livello di lettura, senza negare la validità della lettera, nelle parti profetiche invece il livello interpretativo è unico e cristologico, perché Ippolito non ammette l'inveramento delle profezie su Israele."

Evidentemente qui gli autori intendono "typoi" in modo simile all'interpretazione allegorica (che ho accennato per Barnaba) - come ad esempio Adamo è "il tipo, la figura di colui che doveva venire" (Romani 5,14) e non in senso stretto, perché non immaginano fino in fondo cosa nasconde il mondo di un "secondo livello di lettura" e, così facendo non appare loro che gli antichi e primi scrutatori giudeocristiani facessero decriptazioni dei segni ebraici.
Solo con i giudei era possibile, infatti, parlare di ciò, mentre quell'uso non era possibile con la maggior parte dei primi cristiani soprattutto quelli provenienti dai proseliti di lingua greca (Eusebio, Praep. Ev. 10,5; Isidoro di Siviglia, Etymol 9,1 3) e latina.

L'intero alfabeto fu usato per simboleggiare la potenza di Cristo; già nell'Apocalisse (21,6 e 21,13) sono riferite a Cristo le parole "Io sono l'alfa e l'omega, principio e fine"; quindi = uno, inizio, principio e = fine, e nel libro "Alle origini della Chiesa" (Libreria Editrice Vaticana 1981) di Bellarmino Bagatti è riportato un episodio su Gesù mandato a scuola e che confonde il maestro, estratto dalla "Lettera agli apostoli" (160 d.C.) e dal "Vangelo dell'Infanzia" dello pseudo Tommaso che dice: "Il precettore cominciò ad insegnargli l'alfabeto e Gesù gli disse: 'Prima dammi una spiegazione dell'Alef ', ma quegli non seppe dargliela; ciò viene così a sottolineare, come dice il Bagatti, che "si deve attribuire a Gesù una dottrina ermetica sul valore delle lettere".

Che agli inizi vi fossero tentativi d'esegesi oggi non adottati risulta chiaro dalla considerazione d'Ireneo contro gli gnostici: "Ed essi cercano di addurre prove non soltanto dai vangeli e dagli scritti dell'Apostolo (Paolo), travisandone di sana pianta l'interpretazione e dando spiegazioni false, ma anche dalla Legge e dai Profeti. Infatti, poiché molte cose sono dette in parabole e allegorie e possono essere forzata in molte direzioni diverse, con la loro interpretazione essi le adattano alle loro invenzioni e per giunta lo fanno in maniera ingannevole." (I,3.6) dal quale sembra uscire un cenno di critica ad una prassi contemporanea o pregressa, oggi desueta e/o non nota, quando eseguita con mentalità volutamente distorta.

Il testo della Scrittura poi costituiva un problema notevole.
I manoscritti. ad esempio, che aveva a disposizione Origene (185-254 d.C.) - i codici dei Settanta usati nella sua Chiesa - erano in parte lacunosi e il loro senso era spesso oscuro e volle confrontarli con il testo originale ebraico "apprese la lingua ebraica" (Eusebio HE VI,16) ed i metodi esegetici dei rabbini da un ebreo palestinese passato al cristianesimo ed emigrato ad Alessandria e racconta (PG 13,800), ad esempio, che per sincerarsi del significato della lettera Tau = aveva interrogato tre ebrei di cui uno "che credeva in Cristo" che gli dette la risposta aspettata, cioè che il Tau = simboleggia la croce; più tardi diede avvio a un'opera con la quale fondò in pratica la critica testuale della Bibbia.

Accostò sinotticamente in quattro colonne (la "Tetrapla") il testo originale ebraico dell'Antico Testamento (trascritto in lettere greche), la Settanta e altre due traduzioni greche (più tardi furono aggiunte altre due colonne con altre due traduzioni in greco - la "Hexapla").
L'obiettivo però era solo il miglioramento della Settanta nella cui colonna segnò aggiunte e omissioni rispetto al testo originario.

Origene dice: "Il Primo e l'Ultimo è il Salvatore... Perché ci sono le lettere di Dio, come vi sono realmente - i santi conoscendole affermano di leggerle nelle Tavole celesti - sono (lettere) nozionali, divise in parti minute cioè alfa e così di seguito fino ad omega, che è il Figlio di Dio. Il quale è anche Principio e Fine".

(PG 14,82s) e Bagatti nel libro "All'origine della Chiesa" (VIII. 1) asserisce: "Per esprimere il concetto di Gesù inizio e fine di tutte le cose, invece di restringersi alle sole due lettere estreme si può scrivere anche l'alfabeto completo o almeno l'inizio, perché nella mente degli antichi ogni lettera aveva il suo valore intrinseco".

Ho trovato sulla rivista ebraica Shabbat Shalom N°131/2004 questo pensiero tratto dal libro "365 meditations of the Rebbe" che evidenzia la tensione sulle lettere ebraiche e in particolare lettera "'Alef" scrive: «La condizione del mondo attuale si chiama "golah", mentre la condizione in cui si troverà presto si chiama "gheulah". Le due parole sono uguali, ma in mezzo a "gheulah" c'è una "'alef'". Alef significa padrone ma anche uno. Perché la "golah" diventi "gheulah", dobbiamo solo rivelare la "Alèf", il solo padrone dell'universo che si cela nelle creazioni del nostro mondo attuale. ... Non siamo noi a dover essere portati fuori dall'esilio; piuttosto, è l'esilio a dover essere portato fuori di noi.»

Gli esegeti, del II e III secolo non potevano applicare il metodo delle lettere anche ai testi tradotti della Bibbia dei Settanta e poi alla Vulgata, gli unici usati, in quanto, com'è ovvio, quei testi non potevano dare i frutti che si conseguono con l'originale grazie ai segni ebraici; invero al riguardo in Bagatti, in "Alle origini della Chiesa" (III.6) ho trovato: "Secondo alcuni studiosi, ma negato da altri, il vescovo Melitone di Sardi in Asia Minore, sarebbe venuto a Gerusalemme per procurarsi delle Bibbie traslitterate, cioè ebraiche con lettere greche, per la lettura nelle chiese. Se lo fu in realtà, tale lavoro doveva essere stato fatto dai giudeo-cristiani."

L'attività relativa fu poi più portata sul piano omiletico, in quanto, le tematiche fondanti erano da estendere ad una massa incolta; perciò i tentativi dei primi secoli si rivolsero più ai numeri sacri (Vedi ad esempio lettere di Pacomio e scritti di Ireneo da Marco il Diacono, in Ireneo Advr. Haer. 1,15) e la ricerca della lettura dei segni venne a cessare.

Anche Girolamo (331-420 d.C.) prese lezioni d'ebraico da un convertito e dopo un periodo tra i monaci ascetici del deserto della Calcide intraprese la traduzione del testo ebraico onde arrivare ad un testo (Vulgata) in latino, ma rimase sempre un convinto assertore dell'"hebraica veritas", cioè del testo originale ebraico.
Girolamo mosse obiezioni sulla Settanta (che non fu una traduzione profetica nelle 72 celle separate, ma in una unica sala - Apologia contro Rufino II, 25) e propose l'idea d'adottare il testo originale ebraico; ciò trovò un portavoce in Agostino, timoroso che la Vulgata potesse essere accolta come divisione tra Oriente ed occidente (Vedi: Lettere 28 = 56 di Girolamo e 71 = 104 in Girolamo).

Girolamo, che "faticò per imparare una lingua straniera affinché gli ebrei la smettano di attaccare la Chiesa sulla base della scorrettezza dei suoi scritti", fece notare come le citazioni dei Vangeli provengono prevalentemente dal testo ebraico, "che anche il Signore usa e dal quale i discepoli attingono esempi" e ciò conforta e dà sostegno ulteriore all'idea sviluppata in altra parte del mio lavoro di decriptare quei versetti richiamati nei Vangeli.
Nel tempo pur tuttavia la sua Vulgata s'affermò in quanto per la prima volta la Chiesa disponeva d'un testo incomparabilmente più vicino alla traduzione tradizionale del testo ebraico rispetto alla Settanta tanto che nel Concilio di Trento fu riconosciuta come Bibbia ufficiale del Cattolicesimo.
Nel contempo Lutero aveva prodotto dal testo ebraico la sua traduzione in tedesco e ironia della sorte la Volgata rappresentò la traduzione ecclesiastica irrigidita alla stregua che la Settanta così appariva a Girolamo che produsse la Vulgata.
Nel Dei Verbum 21 del Concilio Vaticano II si legge: "...i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre lettere", che sembra conservare traccia dell'antico pensiero.
Sant'Agostino in "Enarratio in Psalmos" scrive: "Ricordatevi che uno solo è il discorso di Dio che si sviluppa in tutta la Sacra Scrittura ed uno solo è il Verbo che risuona sulla bocca di tutti gli scrittori santi, il quale essendo in principio Dio presso Dio, non conosce sillabazione perché è fuori dal tempo".

Cioè pur non sapendo ormai, perché tutto però è miracolosamente rimasto perché si dia la dovuta importanza alle lettere originali!
Più ci s'allontana dall'origine, più si perde traccia di questo tipo d'investigazione basata sull'attento esame delle lettere del testo canonico ebraico in quanto la Chiesa si stava portando su un tipo d'esegesi più consono per la massa dei nuovi adepti.
Perciò, per la ricerca in campo Cristiano, non resta che cercare nell'ambito dei primi scritti canonici e anche se ciò sembra impossibile perché nessun testo è stato scritto con segni ebraici, c'è però la possibilità di decriptare i passi ebraici delle citazioni dell'Antico Testamento in essi riportate e queste in genere ampliano e arricchiscono o rendono palesi a pieno le profezie anche quando prese da sole il testo non sembra parlare in modo esplicito.
In definitiva sono proprio i "Vangeli, profezie attuate dal Cristo".

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