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LA VITE VERA - ANTICO EGITTO

di Alessandro Conti Puorger
 
 

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COMMENTO ALLA PARABOLA DELLA VERA VITE
Il Vangelo di Giovanni con l'episodio delle nozze di Cana in cui Gesù trasformò l'acqua in vino pone in evidenzia che quello fu il primo segno che lo presentava come il Messia atteso.
In tale occasione i discepoli credettero a Lui e quando poi in Giovanni 15,1 dirà loro "Io sono la vera vite..." erano ormai pronti a seguire con attenzione quanto voleva dir loro.
Avevano, infatti, visto come del vino buono era venuto da quella vite.
Certo la vigna "koroem" pesca i suoi alimenti dalla terra attraverso l'acqua che cade, pioggia che Isaia 55,10.11 paragona alla Parola di Dio.
Ecco allora che la vigna un calice innalza = di benedizione o di maledizione.
La sua linfa è in grado di produrre un succo benefico capace di far innalzare l'uomo verso il cielo, ma che se, se ne abusa, diviene malefico e lo precipita nel profondo degli inferi, onde in tal caso risulta essere una maledizione.
È questo del vino, quindi, una cartina tornasole che misura il buon uso del dono della libertà che Dio ha concesso all'uomo.

A tale ultimo riguardo i versetti in Proverbi 23,29-35 fanno capire come il vino possa diventare anche strumento demoniaco, infatti, "Per chi i guai? Per chi i lamenti? Per chi i litigi? Per chi i gemiti? A chi le percosse per futili motivi? A chi gli occhi torbidi? Per quelli che si perdono dietro al vino, per quelli che assaporano bevande inebrianti. Non guardare il vino come rosseggia, come scintilla nella coppa e come scorre morbidamente; finirà per morderti come un serpente e pungerti come una vipera. Allora i tuoi occhi vedranno cose strane e la tua mente dirà cose sconnesse. Ti parrà di giacere in alto mare o di giacere in cima all'albero maestro. Mi hanno picchiato, ma non sento male. Mi hanno bastonato, ma non me ne sono accorto. Quando mi sveglierò? Ne chiederò dell'altro!"
(Vi sono analogie con gli insegnamenti di Amenemope faraone della XXI Dinastia - 1000 a.C.)

In Appendice, del capitolo Proverbi 23 riporto la decriptazione dei 35 versetti che lo costituiscono.
Una vigna buona, se non potata, presto, però, diviene cespugliosa con vegetazione disordinata per cui la produzione risulta irregolare con piccoli frutti di qualità modesta e a lungo andare degenera in acini agri.
Non tutti i tralci vanno bene, infatti, devono dirigersi verso l'alto o essere orizzontali evitando curve verso il basso affinché la linfa sia facilitata a passare.

Nella vite del Signore, "gafoen" , la linfa "scorre dal Verbo come energia " e "scorre dal Verbo negli emissari ", gli apostoli, che divengono i tralci che portano i suoi frutti, i grappoli con gli acini.
Ciò che passa dal tronco della vite, che nella parabola è l'Unigenito incarnato di cui il Padre è il viticultore, è la linfa dell'amore "'ahabah" che "dall'Unico entra dentro il mondo ".

Questo poi sarà il tema della spiegazione della parabola.
Solo questo amore è quanto devono portare i tralci che dall'agricoltore - Dio Padre - perciò vengono attentamente preparati con la potatura e attorcigliandoli opportunamente per assolvere al meglio la propria funzione.
I tralci non hanno vita in sé, ma portano la linfa della vite altrimenti sono morti; la vita dei tralci è nella vite, loro sono solo dei condotti dell'amore di Dio.
Questo amore di Dio si evidenzia con sua Parola che reca lo Spirito che edifica e da la vita, ossia che vivifica per la potenza che sostiene.

Nel Vangelo di Giovanni, al capitolo precedente, il 14, Gesù aveva parlato del suo "dimorare" in colui che lo ama con queste parole "Gli disse Giuda, non l'Iscariota: Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo? Gli rispose Gesù: Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato." (Giovanni 14,22-24)

Ecco che la parabola della vite e dei tralci chiarisce questo dimorare di e in Cristo proprio come lo stargli attaccati e nutrirsi della sua linfa non prendendo altro che non venga da lui, infatti, "Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato." (1Giovanni 2,6)

Ogni tralcio porta frutto, e questi sono i grappoli di uva, per la parabola.
Grappolo come abbiamo visto è "'oeshkol" perché "dell'Unico un fuoco racchiude ", il fuoco dello Spirito Santo, il fuoco dell'amore.
Questi grappoli i suoi discepoli, in effetti, sono una benedizione per il mondo, perché apportatori di quel Santo Spirito.
Riporta al riguardo il profeta Isaia quanto dice il Signore: "Dice il Signore: Come quando si trova succo in un grappolo, si dice: Non distruggetelo, perché qui c'è una benedizione, così io farò per amore dei miei servi, per non distruggere ogni cosa. Io farò uscire una discendenza da Giacobbe, da Giuda un erede dei miei monti." (Isaia 65,8s)

L'insieme dei grappoli sono il frutto "peri" della vite che "del Verbo il corpo sono ", la Chiesa, la vigna del Signore che riguarda proprio una similitudine col Regno dei Cieli.
Quella della "Vigna del Signore", di fatto, è la parabola "dei lavoratori della vigna" che si trova solo nel Vangelo di Matteo che recita: "Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente? Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella vigna. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama i lavoratori e da loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi." (Matteo 20,1-16)

Nel testo della parabola si parla di prima, terza, sesta, nona e undicesima ora che corrispondevano al levar del sole, la sesta ora era il mezzogiorno e l'undicesima era, addirittura, le cinque del pomeriggio.

Al riguardo è da ricordare quanto disse a commento Papa Benedetto XVI nell'Angelus del 21 settembre 2008 a Castel Gandolfo: "Cari fratelli e sorelle, forse ricorderete che quando, nel giorno della mia elezione, mi rivolsi alla folla in Piazza San Pietro, mi venne spontaneo presentarmi come un operaio della vigna del Signore. Ebbene, nel Vangelo di oggi - Matteo 20,1-16a, Gesù racconta proprio la parabola del padrone della vigna che a diverse ore del giorno chiama operai a lavorare nella sua vigna. E alla sera dà a tutti la stessa paga, un denaro, suscitando la protesta di quelli della prima ora. È chiaro che quel denaro rappresenta la vita eterna, dono che Dio riserva a tutti. Anzi, proprio quelli che sono considerati "ultimi", se lo accettano, diventano "primi", mentre i "primi" possono rischiare di finire "ultimi". Un primo messaggio di questa parabola sta nel fatto stesso che il padrone non tollera, per così dire, la disoccupazione: vuole che tutti siano impegnati nella sua vigna. E in realtà l'essere chiamati è già la prima ricompensa: poter lavorare nella vigna del Signore, mettersi al suo servizio, collaborare alla sua opera, costituisce di per sé un premio inestimabile, che ripaga di ogni fatica. Ma lo capisce solo chi ama il Signore e il suo Regno; chi invece lavora unicamente per la paga non si accorgerà mai del valore di questo inestimabile tesoro."

Al tempo di Gesù esistevano il siclo "sheqel" o moneta corrente e lo "sheqel kodesh" il siclo sacro, ma solo quest'ultimo era ammesso nel Tempio, ecco perché nel suo atrio c'erano i cambiavalute che cambiavano in "sheqel kodesh" la moneta corrente e le monete romane e straniere, proibite in quanto recanti una l'effigie di divinità straniera ivi compreso l'imperatore.
Il pagamento del lavorare nella vigna del Signore è appunto unico per tutto, è lo "sheqel kodesh", la moneta della Santità che il Signore riconosce ai lavoratori che rispondono alla Sua chiamata e la moneta ricorda un trattamento "alla risurrezione leggero, facile e veloce ", diviene insomma un lasciapassare che dimostra l'avvenuta "giustificazione" da parte del Signore purché trovi l'uomo al lavoro nell'ultima ora, come accadde per il ladrone che sulla croce disse bene di Lui all'altro brigante.

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