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RACCONTI A SFONDO BIBLICO...

 
SCRIVERE SULLA PIETRA AL HOREBA

di Alessandro Conti Puorger
 
 

Nell'appassionante e coinvolgente ricerca di lettura dei testi sacri della Tenak, cioè di quelli inclusi nel canone ebraico della Bibbia, ma immaginati con i segni originari - solo consonanti, senza indicazione delle parole, lettere tutte equi-spaziate, assenza delle 5 lettere maiuscole di fine parola, aspetti da rebus - di cui ai tanti articoli inseriti in questo sito, sono emersi anche aspetti, interrogativi e temi che viaggiano al confine tra sensazione e certezza.
Partendo dalla tradizione che propone Mosè, ebreo-egiziano, autore almeno del nocciolo duro della Torah, man mano che m'addentravo nel tema, m'è sorta spontanea la domanda: quale potrebbe essere stata la scrittura adottata da Mosè e dalla sua scuola al Sinai per riportare, ad esempio, il decalogo?
Associata a quella: com'è nata la scrittura ebraica?
Tutta la Torah, infatti, asserisce a gran voce l'uscita dall'Egitto di quel popolo, Israele, verso la fine del XIII secolo. a.C. sotto la guida di quel Mosè, il liberatore, epoca in cui almeno dai documenti ufficiali non erano ancora noti altri alfabeti o modi di scrittura se non quello poco noto nei geroglifici e la tradizione suggerisce solo che quelle lettere erano scritte sul trono di Dio.
Di quei tempi per ora solo qualche tenue traccia di Apirù e di Israele s'è trovata in una lapide e in tavolette egizie, ma non di più, forse perché i grandi imperi parlano ed esaltano solo le vittorie e certe cose è meglio tacerle.
Il libro dell'Esodo ci narra del lungo tempo, vissuto da Mosè in Madian prima dell'episodio del roveto ardente e poi, subito dopo quella lunga esperienza, lui il profeta condottiero si alza come liberatore e... scrive, ma di come abbia prodotto la scrittura, non si sa in sostanza nulla.
La nozione che la scrittura ebraica abbia qualcosa a che vedere anche con i geroglifici egiziani è plausibile, come pure lo è che qualcosa di scritto a quei tempi i primi Israeliti, dovevano pur produrre.
Altra pista che viene dai testi è che l'esperienza in Madian e di tutti quegli anni di girovagare dei fuoriusciti nell'area sinaitica abbiano in qualche modo avuto una loro influenza, nei riguardi dello scrivere, perché i cenni storici della Bibbia sono sempre agganci veritieri.
La domanda che aleggia è: dai geroglifici egiziani nelle zone confinanti ad oriente dell'Egitto si è passati attraverso i graffiti sinaitici a segni più stilizzati e poi alle lettere dell'alfabeto ebraico?
La parte emergente di fluide sensazioni affermative non trova, però la prova certa nei documenti storici e, pur se l'iniziale sensazione è sempre più certezza per chi scrive, non è disponibile la pistola fumante come una stele di Rosetta o simile da cui emerga l'origine di quei segni che paiono essere anche immagini.
Ciò che supera la possibilità di una prova, può sempre, però, essere sottoposto al vaglio dello spirito dell'uomo che intimamente cerca la verità, indi ho raccolto in forma di racconto, tipo "midrash", vale a dire a modo di narrazione le idee che all'inizio dalla ricerca mi sono nate sul tema, altrimenti non esprimibili. Queste alla lunga hanno superato in me la critica del tempo, perché nonostante l'investigare resistono alle mie obbiezioni.
La parte essenziale del racconto che riporto, fu già oggetto dell'articolo "Le lettere dell'Eterno per gli uomini" nella rubrica "Racconti a sfondo biblico" uno dei primi scritti che produssi per sigillare impressioni iniziali alla ricerca dell'origine delle lettere ebraiche, molto vicino come tema ai miei "Chi ha scritto l'Esodo conosceva i geroglifici" e "Tracce di geroglifici nel Pentateuco 1a" e 2a Parte nella rubrica "Lettere ebraiche e codice Bibbia".
L'articolo presente riprende completamente quanto gia scritto, ma l'integra con sensazioni e considerazione intervenute nel frattempo che rafforzano l'idea di che si intravedeva.

Midrash di Mosè al Horeba
Quasi XXXIII secoli fa, in Egitto.
Correva il X anno (1280 a.C.) del regno di Ramsete II (1290-1224 a.C.), il terzo faraone della XIX dinastia a partire dai primi conosciuti, i Teniti.
Questo faraone ad Abido, sede dei regni delle prime dinastie, dietro al Tempio per Osiride costruito dal padre Seti I voleva lasciare la propria memoria, un tempio ove incidere l'elenco dei faraoni, le incarnazioni di Horus che avevano preceduto Sethi I, partendo da Menes, ma inserendo solo i nomi di quelli che l'intellighenzia del momento riteneva "degni".
Erano 76, escludendo - damnatio memoriae - quelli eretici, poco graditi alla dinastia e soprattutto ai sacerdoti di Ammon Ra, quali Akhenaton IV ed eredi.
Nel principe reale, Mosè, nobile, perché adottato dalla figlia di un precedente faraone, che poco più che ventenne era stato assistente del sovrintendente della cava di Abido e ora a 24 anni neo-ispettore reale alle nuove opere, nominato da Ramsete II, l'esperienza alla cava per l'estrazione delle lastre e delle colonne per il nuovo tempio era restata impressa in modo indelebile.
Attese, infatti, al primo incarico con molta cura ed intelligente curiosità, con proposte sensate ed utili, crescendo in competenza tanto che fu fatto salire ad incarichi sempre più importanti a diretto contatto col faraone, di cui peraltro era stato compagno d'avventure già prima che diventasse faraone, l'ultimo dei quali fu l'essere impegnato in tante costruzioni perché la casa regnante, tra l'altro, aveva trasferito da Tebe alla zona del Delta la nuova capitale, nella località detta oggi Pi - Ramses, già Avaris.
Mosè, così, conosceva bene la determinazione degli scalpellini e, con gran curiosità, li guardava lavorare, spesso ammirato.
Ne aveva conosciuti tanti, tutti amici, molti pure tra i suoi fratelli ebrei e gli avevano insegnato la tecnica e le accortezze.
Sapeva della loro paziente metodicità, della loro abilità manuale, dell'estro d'artista e nel contempo della salda determinazione, della loro forza e di come comprendevano ogni venatura della pietra che trattavano, che pareva ammorbidirsi sotto i loro colpi precisi.
Era, infatti, convinto che nella propria mente proprio degli scalpellini avessero scritto direttamente nella memoria le immagini degli eventi che avevano provocato la sua fuga precipitosa dall'Egitto.
Si ricordava, infatti, e lo terrorizzava ancora al ripensarci, l'assurdo abisso indomabile d'ira cieca, che non aveva mai conosciuto in sé, scattata improvvisa per l'ennesima ottusità nei riguardi d'aiutanti ebrei che, peraltro, davano veramente l'anima per eseguire ordini sempre più assurdi, aggravati dal malanimo d'alcuni inservienti egiziani che cercavano di metterli in cattiva luce.
Era riuscito tante volte a dominarsi, ma quella volte che aveva fatto l'ispezione al cantiere dove facevano i mattoni per la nuova capitale non aveva potuto frenarsi.
Era un lavoro massacrante, sempre sotto il sole, trasportare acqua e argilla e paglia, impastare, formare, scaricare la forme al sole, caricare, eppure...!
Tante volte presentando obbiezioni sensate al faraone sui vantaggi per la riuscita dei lavori era riuscito a far evitare oppressioni del tutto gratuite verso gli ebrei che avevano tanti nemici, perché molti erano riusciti nel passato, grazie alle precedenti dinastie e per le loro capacità ad arrivare in buone posizioni.
Troppe e sempre più pressanti erano le angherie sobillate e attuate dai sovrintendenti da parte dei sacerdoti di Ammon Ra che vedevano gli ebrei come il fumo negli occhi.
Quella volta non ci vide più lui.
Alzò il pugno, come una mazza - Mosè era veramente un uomo roccioso - e l'egiziano, che malmenava un suo parente ebreo, cadde a terra come un sacco, svuotato, batté la testa su una pietra... morto stecchito!
Lui rimase per un attimo incredulo, poi impaurito lo ricoprì di sabbia, ebbe paura d'essere scoperto; infatti, dopo una notte insonne il giorno dopo capì che se ne parlava e che si sarebbe risaputo.
Un atto imperdonabile, il faraone pur se amico non lo poteva salvare.
D'altronde a corte i suoi detrattori invidiosi, avrebbero agitato davanti al faraone che non doveva dispiacere la dea Maat, che proprio lui doveva servire della giustizia, altrimenti avrebbe perso la faccia davanti al popolo ecc. e Ramses II faceva di tutto per apparire il migliore di tutti.
Non poteva sperare clemenza, perciò non gli restava che sparire.
Aveva circa quaranta anni e davanti a lui si apriva un'incognita totale.
Fu così che fuggì attraverso le paludi, ai Laghi Amari, poi nel deserto del Sinai... un sole accecante, caldo torrido, tanta sete, ma il cielo s'aprì, un miraggio... un pozzo.
Dio di lui s'era ricordato anche se, allora, di Dio lui, Mosè, non s'era ricordato!

Eppure Mosè aveva una memoria prodigiosa.
S'era esercitato a notare i minimi particolari sui progetti e nei cantieri ed a verificare gli errori nelle riproduzioni dei geroglifici rispetto a quelli che conosceva, fatti dai più esperti negli oltre XVIII secoli di storia egizia che l'avevano preceduto.
Come ispettore aveva, infatti, visitato quasi tutti i templi per accertare se erano ben tenuti, e pure controllava le tombe in preparazione per la famiglia reale e dei funzionari della casa del faraone: scavi, intonaci, affreschi, incisioni e splendore e durabilità dei colori, solo per citare alcuni aspetti.
Era esaltante quando la pietra, con mazza e scalpello, tenuti in pugno saldamente e sotto colpi esperti sembrava cambiare magicamente natura con le incisioni del linguaggio sacro egizio.
Da morta la pietra, una volta incisa, diveniva viva, apriva la bocca e, interrogata con intelligenza, rispondeva con altrettanta intelligenza.
Poteva addirittura ancora rispondere secoli e secoli dopo e trasmettere così messaggi del sapore d'eternità.
Fatti antichi, che sarebbero stati perduti nella memoria dei morti dell'oltretomba venivano, così, evocati e freschi risorgevano.
Si! Era una vera magia, un'opera che aveva del soprannaturale.
Appunto per questo gli egizi credevano che la scrittura fosse dono del loro dio Toth, perché quei segni non erano come le parole uscite dalla bocca degli uomini pur se potenti, avevano qualcosa di divino.
Le pietre incise incutevano sacro rispetto, parlavano di una sapienza dono del cielo, avevano potere a lungo, più a lungo della vita d'ogni essere, anche il più longevo, più di Matusalemme di cui gli diceva la mamma ebrea, anche dopo la morte di chi le aveva incise o le aveva provocate.
La pietra, se avesse potuto parlare avrebbe raccontato che chi l'incideva era uno scalpello, ma in effetti, quello era solo un intermediario.
La pietra non lo poteva capire, ma dietro lo scalpello c'era una mente, una volontà, una forza, un vivente che agiva ed incideva la pietra.
Si, diceva in cuor suo, e ci pensava spesso, questo dono il Dio dei nostri patriarchi non ha ancora avuto modo di darlo a noi ebrei, perché non abbiamo mai avuto un regno e necessità di scrivere, ma il modello è sicuramente suo.
Da quando siamo entrati in Egitto con Giuseppe, è vero, cerchiamo di scrivere con i geroglifici le parole della nostra lingua, ma sono poco pratici ed è difficile, perché le parole sono diverse e i segni delle lettere base non sono espressivi come invece appaiono a loro, gli egizi, i metsarim, perché gli oggetti che rappresentano quei segni, appunto per noi, si chiamano con altri nomi e poi anche se si usano solo le lettere base sono troppe e molte riguardano suoni che non abbiamo.
La stessa scrittura non d'apparato, la ieratica, ha più o meno analoghi problemi, troppe consonanti inutili hanno gli egiziani rispetto a noi e portano ad equivoci, perché uno usa una consonante dal suono vicino ad un'altra e l'altro che legge spesso non comprende e capisce altro.
Lui, Mosè, usava inviare pezzi di pelle con embrioni di geroglifici, ma con parole della propria lingua tramite gente di fiducia che transitava periodicamente con carovane o altro perché li portasse ai suoi cari in Egitto, così, se trovati quei testi criptati non sarebbero stati capiti da tutti e forse nemmeno da altri ebrei se non sapesse certe convenzioni pattuite sui segni usati.
Il problema di trovare dei segni per scrivere gli era così entrato chiaro nella testa come necessità prioritaria.
Sento che si può fare di meglio... quando avremo il dono di un regno.

Le sere davanti la casa costruita vicino ad un pozzo in Madian, dopo cena Mosè, parlava spesso proprio di questo con Ietro, il suocero, sotto le stelle all'imbrunire, quando apparivano in cielo, una ad una, splendide e luminose.
Quelle parevano proprio come se fossero incise una dopo l'altra in quel blu-indaco e terso da una mano invisibile, commentavano, davanti a tutti quei misteri.
Erano veri amici, si trovavano bene assieme, si conoscevano ormai da tanti anni, poco meno di quaranta, e poi erano quasi coetanei, perché Ietro aveva solo una decina d'anni più di lui, di gran cultura e soprattutto di buon senso ed entrambi buoni ascoltatori.
Una sera, proprio guardando le stelle, fu Mosè a sostenere che non era stato Toth ad inventare la scrittura, ma il Dio Unico che aveva inciso il cielo e la terra e creato la mente degli uomini.
Caro Ietro, argomentava, non fare confusione, c'è un abisso il Dio Unico, creatore del cielo e della terra, la fede che mi ha trasmesso in Egitto la mia famiglia ebrea, e il dio Aton di Amenofi IV.
Lui, è vero, oltre un secolo prima cercò di cambiare cosmogonia degli dei egizi dandogli un ordine convergente all'unità e credeva in un dio unico che secondo lui era però il sole... ma il sole Ietro è stato creato anche lui.
Fu allora che si ricordò e gli raccontò della storia della torre di Babele e di come tutti gli uomini avevano avuto una sola lingua e le stesse idee ben prima della venusta dinastia dei Tiniti e dell'invenzione del dio Toth.

Lui, Mosè, fin da ragazzo, dall'età di 12 anni, quando ormai aveva la possibilità d'andare da solo, un giorno ogni sette, e lo faceva poi anche da grande quando non era in giro per incarichi, andava a trovare quella che ritenevano a corte essere la sua tata, la balia a cui era legato da molto affetto.
Lei però, Jochebed, era sua madre, anche se era stato adottato dalla figlia di un precedente faraone, sì proprio lei aveva portato il suo peso.
Quelle sere era festa, tutti attorno alla tavola.
La madre e la sorella Miriam accendevano due luci alle estremità della tavola, e servivano un pasto frugale, sano e semplice, cucinato senza le tante spezie che usavano alla reggia.
Tutto era buono e appetitoso col pane che faceva la mamma, con l'olio buono che fa brillare i volti e c'era anche il vino che allieta i cuori.
Al calore familiare s'aggiungeva l'allegria che veniva, infatti, da coppe di buon vino distribuito con moderazione sotto gli occhi attenti dei genitori.
Il vino lo procurava proprio lui Mosè dalla cantina del faraone, fatto però da coppieri ebrei che erano preziosi, perché si tramandavano l'arte dal primo vignaiolo, l'antico Noè.


Amram, il padre, cominciava i racconti a partire da... Adamo ed Eva, poi dell'alleanza di El Shaddai con Abramo, Isacco Giacobbe e... giù domande intelligenti da parte di Mosè e del fratello Aronne, più grande di tre anni, quindi le risposte argute di Miriam e della mamma.
Certe volte anche gli zii e altri parenti s'aggiungevano, ed allora altre esperienze antiche, particolari e dettagli e tutto contribuiva ad arricchire quei momenti; era insomma un tesoro enorme di notizie che Mosè, dalla memoria prodigiosa, conservava gelosamente nella mente e nel cuore.
Si diceva, come fare a non perderle?...andavano scritte sulla pietra.
Fatti che si raccontavano in famiglia da secoli e... poi di Giuseppe, la gloria d'Israele, divenuto come il faraone, quindi il voltafaccia di successive dinastie che non si ricordavano o volevano ricordare di Giuseppe, come quella dei Ramseti che aveva addirittura cercato di sotterrare la memoria del faraone Achenaton IV, l'ultimo faraone amico degli ebrei... tutta colpa dei sacerdoti di Ammon-Ra.
Quando Mosè parlava con i suoi familiari del modo di scrivere egizio il padre diceva: non c'entra Toth, anche noi sapevamo scrivere con segni sacri che c'erano prima di Babele, tutti avevamo un'unica lingua e tutti si comprendevano e scrivevano con quei segni che conoscevano, perché erano noti al progenitore Adamo che l'aveva avuti dagli angeli di Dio, perché scritti sul trono, ma poi fummo tutti dispersi e adottammo i segni locali di dove stavamo per i commerci.
D'altronde noi non scrivemmo più, non abbiamo mai avuto un archivio, dove lo tenevamo? dove avremmo potuto conservare le nostre vicende ? se non nei nostri cuori e nelle nostre menti.
Passarle di padre in figlio è come scriverle sulla pietra!
E Mosè si portava quel carico d'informazioni e sentiva che prima o poi avrebbe dovuto passarle anche per iscritto... ma come?

Diceva Mosè a Ietro: il sole è lo scalpello della vita, ma chi muove il sole?
Se c'era un abisso tra la religione degli ebrei e quella di Aton, gli abissi erano due con quella di Ammon-Ra, i cui sacerdoti aumentavano il numero dei templi ed i motivi per costruirli inventandosi sempre nuovi dei, ma solo per crearsi posti ove mangiar bene e far cassa, avere dei servi e comandare.
Il faraone "eretico" Achenaton, già Amenofi IV almeno n'aveva fatto piazza pulita; ad Amarna la sua nuova e ormai abbandonata capitale solo il dio Aton lui adorava e faceva adorare nelle varie forme.
Ietro, anche se era sacerdote di un dio locale, un Nomo Arabico, era però ascoltatore attento, cristallino e in buona fede.
Alla critica sull'aumento a dismisura della cosmogonia era in difficoltà e annuiva, non era così ai tempi di suo padre.
Il dio che servivano, di cui Ietro era subentrato come sacerdote, era un dio antico, SePDu, sposato con la dea SePDeT, era emanazione d'Ammon-Ra, manifestazione particolare di Horus, la stella Sirio, Sotis per i greci, che ogni anno, dopo essere rimasta invisibile, quando avveniva la levata eliaca all'aurora nella costellazione del "cane" si credeva che provocasse l'inondazione del Nilo in Egitto.
In concomitanza di tale evento, infatti, a memoria d'uomo si verificava la grande piena del Nilo che usciva dall'alveo e portava la terra nera, il limo fertile lungo la sua valle e consentiva la vita a tutto il popolo.
L'Egitto, appunto, si chiamava la terra nera, Chemet.
I contadini, appena avvertiti dell'inondazione, predisponevano l'apertura dei canali di derivazione, tagliavano le dighe provvisorie delle piane intorno al Nilo per far arrivare le acque anche lontano onde allagassero così le zone basse lontane e depositassero il limo fertilizzante sulle più vaste aree possibili.
Per questo Ietro era uso guardare le stelle per anticipare al massimo l'evento!

Sulla pietra, continuò Mosè, si scrive la volontà di chi parla e, aggiunse, del pari, considerata tutta la terra come un'unica pietra, il sole è come lo scalpello, un semplice mezzo che serve per incidere la parola "ci sia luce sulla terra" e dare così la vita a tutto.
Domandava: ma Ietro, chi è il pensante, il vivente che vuole che ci sia la vita?
Fu così che Ietro in una di quelle occasioni gli parlò di un monte ritenuto sacro da lui, ma anche da tutte le popolazioni della zona, oltre il deserto, verso Sin, dove c'erano segni di un culto millenario, prova n'erano antichi disegni incisi sulle rocce e tracce di are sacre.
Là aveva incontrato anche nomadi provenienti da oriente, anche loro pastori, che vi praticavano un loro culto, secondo lui molto antico e primitivo.
Era quella una delle poche alture della zona, area cuscinetto dell'impero egizio, la parte più orientale ove in passato il Faraone aveva avuto vassalli ed inviava suoi delegati senza lasciapassare.
Lui, Ietro, quando era giovane portava là le sue pecore con i suoi garzoni e scrutava il verificarsi del risveglio di SePDeT.
Appena notava il fenomeno mandava un suo giovane aiutante con un dromedario veloce a comunicare il messaggio ai cavalieri della stazione di sosta più vicina lungo la via dei Re, lungo la costa e questi, a tappe forzate, portavano la notizia al sovrintendente alle acque che risiedeva a est del delta che con piccioni viaggiatori diramava l'avviso all'Alto Egitto e con torri faro e ancora piccioni nella zona del delta, il Basso Egitto, i Regni del Faraone.
Era una roccia stabile, un alto colle, quasi un monte, non una duna, un posto fisso più elevato dei circostanti che stante l'enorme piana che lo circondava era un osservatorio eccezionale.
Lo sguardo, infatti, andava lontano e si poteva vedere prima che in altre zone l'atteso spuntare al piano orizzonte della stella annunciatrice al lento ruotare delle costellazioni.
Se s'andava là nella stagione giusta, se c'erano state le poche e rade piogge di primavera, nella parte bassa, forse, c'era possibilità di pascolo e vi nascevano anche i crotus, i fiori di zafferano.
Se poi s'aveva fortuna e le piogge erano più abbondanti, alcune volte, non sempre, scavando al piede della roccia gemicava un po' d'acqua, oro in quella zona, forse anche per questo quel monte era una specie di santuario naturale.
(Un archeologo poi scoprì essere quello il monte Har Karkom, nome ebraico moderno "monte dello zafferano", vicino alla biblica Refidim, oggi in territorio d'Israele nel Negheb.)
Il posto era sulla via che portava a est verso la terra di Moab verso le delizie, "eden" - avrebbe detto mamma Jokebed - della valle del Giordano ricco di acque, memoria e delizia di Abramo e di Lot prima dei fatti di Sodoma e Gomorra.
Il rilievo era detto anche Horeba o monte inciso poiché la via che vi portava dall'Egitto passava tra pareti con incisioni fatte nei secoli dai carovanieri e dai nomadi di passaggio.
Il posto aveva il potere d'elevare l'anima ed ispirava al sacro, e se Dio Unico creatore c'era lì, di certo, si doveva di manifestare.

Fu, così, che Mosè nel suo peregrinare con le greggi arrivò anche là ad oriente.
Nell'ampio alveo d'un torrente secco aveva trovato una pietra dura allungata, un opale che lavorò con altre pietre dure per impugnarlo più comodamente e se la mise nella sacca assieme a un ciottolo duro ed arrotondato che si teneva ben in mano.
Trovò poi una bella parete liscia, forse era arenaria ben cementata, estrasse quelle pietre e la prima lettera che Mosè v'incise fu la "Iod " egiziana che rappresenta la vita, il giunco fiorito.
Si, il giunco rappresentava proprio la vita!
Grazie a quelli... proprio i giunchi contribuirono alla sua salvezza.
Beh, erano stati uno strumento suggerito da Dio.
Le donne di casa non potevano nasconderlo più, aveva ormai più di tre mesi e l'ordine di quel faraone senza cuore era chiaro: dovete uccidere nel Nilo i figli maschi degli ebrei, "appena" nati.
Mandava in giro le ronde nei loro quartieri e se sentivano piangere i neonati venivano a vedere.
Era quel faraone il primo della XIX dinastia, Ramses I, venuto dopo Toutankamon, Ay e il già generale, Haremhab.
Haremhab divenuto faraone aveva scelto e nominato visir un suo rude generale, quello che poi fu nominato faraone alla sua morte Ramses I, portato avanti dai soliti sacerdoti nemici che lo sobillarono contro gli ebrei, perché secondo loro alcuni erano stati amici dei monoteisti eretici e si sarebbero arricchiti con quel faraone credulone.
Tutti assieme a casa pregarono e Miriam fu illuminata, parlò forte e chiaro, Dio non li avrebbe abbandonati, così le donne l'affidarono a Dio.
Avevano fatto una cesta spalmata col bitume e, coperto con un tessuto fatto a mano colorato che aveva fatto la mamma - come la veste di Giuseppe diceva - vi avevano messo dentro lui, fanciullino di tre mesi.
Poi, la sorella Miriam aveva avuto un'ispirazione.
Con attenzione, cercando di non farsi scorgere, aveva spinto la navicella tra le calme acque di sponda del Nilo frenate tra i giunchi, i soliti benedetti giunchi, praticamente si trovò così nelle braccia della mamma adottiva, una figlia del faraone che la mattina presto andava là con le sue ancelle per iniziare bene la giornata e fare il lavacro nelle acque del dio Nun lo trovò e fu toccata nel cuore.
C'era ben da ringraziare Dio d'essere ancora vivo, allora ed ora.
Un nuovo Noè, un salvato dalle acque! ... e addirittura a casa del nemico.
Miriam la chiamavano la profetessa, era la sua mamma spirituale.
Lei, infatti, aveva addolcito il cuore del padre che non voleva avere più figli dopo l'editto del faraone, ma Miriam, parola più parola meno, disse al padre: tu fai la tua parte al resto ci penserà Dio.
Così fu, chi annuncia la verità è profeta e lei ha avuto ragione, e così non solo lui, Mosè poté venire alla luce, ma poi con la sua accortezza, ispirata dal Signore, poté salvarlo anche dal Nilo, e non solo, offrì alla principessa una balia e il cerchio si chiuse, rifù in mano alla sua mamma.
Mosè, accanto al giunco fiorito schematizzò, al meglio che poteva con quei mezzi rudimentali, un uomo seduto tranquillo che in egiziano vuol dire "io", quale firma d'autore.

Io, sono vivo grazie a Dio che mi ha salvato, perdonato e dato una nuova possibilità, mi ha tirato fuori dalla schiavitù o peggio dalla morte che mi spettava in Egitto e mi ha portato a godere la pace d'una bella famiglia.
Aveva avuto due maschi da Zippora e li aveva chiamati Gherson, cioè sono emigrato in terra straniera, e Eliezer, Dio è mio aiuto.
Tutto questo avrebbe voluto dire a voce alta e incidere sulle pareti!

Mosè era stanco di dei.
Lui, ebreo, per tradizione non poteva fare come gli egiziani, cioè crearsi simulacri del proprio Dio, ma come indicarLo?
Nelle gole e nei canaloni, mentre camminava rompeva ogni tanto il silenzio con degli "oohoo!" e l'eco gli rispondeva "oo".
Gli piacevano i posti dove poteva provocare quel fenomeno che aveva sentito tante volte nelle cave di marmo.
Là nel deserto nel silenzio assordante era come tornare dai suoi in Egitto, come lo chiamassero.
Un giorno trovò, lungo un uadi usato dalle carovane come via, alcune pareti rocciose con lastroni a gradoni, lisce e con segni incisi.
Cercò d'interpretare i disegni che, però, erano molto rudimentali.
Alcuni erano schematizzazioni d'ideogrammi noti stilizzati, uniti ad altri segni nuovi.
Li studiò attentamente cercando di interpretarli. (La figura è solo un esempio)


C'erano di quelli più vicini ai segni egizi: una brocca un piede una mano... forse l'indicazione d'una sorgente.
Si, il piede in egizio è "posto, luogo", occorre una brocca... occorre battere con un bastone?
Se ne ricordò, era sempre utile trovare sorgenti in quei posti.
Forse era quella di cui parlava Ietro.
Certe volte erano nascoste, stillicidi d'acqua che potevano uscire flebili alla base di alte rupi.
Altri, però, erano segni nuovi, però espressivi, un pesce, una bocca e poi uomini stilizzati che pregavano...
All'inizio quei disegni, o meglio, quei segni, li aveva presi con sufficienza, perché in Egitto nel campo della scrittura aveva visto vere opere d'arte, ma dopo la fatica che aveva fatto con l'esordio della sua prima incisione, li rivalutò ed iniziò ad imitarli.
La durezza della roccia, la difficoltà di trovare strumenti idonei, la fatica ed il caldo gli avevano fatto comprendere che quei segni, pur se rudimentali, erano quanto di più efficace si potesse fare in quelle condizioni.
Poi, e ciò era più importante di tutto, non erano frutto d'arretratezza, ma di praticità e soprattutto di libertà, perché certamente quelli che incidevano non erano schiavi, come quelli che dirigevano i sorveglianti nella cava e nei cantieri che aveva seguito, anche perché nella zona non c'erano schiavi che potessero incidere la roccia, si era lontani dalle cave di rame.
C'è però di più, si disse, c'era un'adorazione sincera, un culto profondo, una dedizione appassionata, perché non è uno scherzo battere per ore sotto il sole.
E per chi? Chi doveva leggere?
Gridò; c'è nessuno!
Rispose l'eco: ...Uno ...Uno.
Si, disse c'è Uno che mi ama e sta sempre con me.
Si domandava e domandava spesso, come se parlasse veramente con una persona in carne ed ossa: Uno come ti chiami ? Qual è il tuo Nome?
Mosè, così andava contento e non provava fatica, anche se aveva passato già da molto tempo la maturità; era anziano, ma era forte e saldo.
Sentiva che in tutto quello che faceva era seguito e custodito da un amico, un fratello... una sorella.
Eh! Si, spesso il cuore riceveva una stretta... Miriam e Aronne là in Egitto, che nostalgia, potessi riabbracciarli?!
In effetti, erano rimasti in collegamento, anche se tra un anno erano quaranta anni che era fuggito.
Tramite altri fuggiaschi, meno noti di lui, che riuscivano a rientrare in terra d'Egitto dalle vaste frontiere impraticabili e poco controllate dei Laghi Amari, era riuscito a mandare e ricevere notizie.
Lì si raccoglievano poche sparute bande di fuoriusciti, schiavi del faraone che erano scappati, che si nascondevano tra le canne, le succot, sempre i giunchi erano d'aiuto... conosceva ormai bene quel posto.
Lui però non poteva rientrare, Ramsete II era ancora vivo e non gliela aveva perdonata, queste erano le notizie, perché aveva dovuto emettere un editto speciale contro di lui per sopire la rivolta dei i sorveglianti egiziani amici dell'ucciso da Mosè.
Mamma e papà Amram erano ormai morti, ma loro, Miriam ed Aronne continuavano a darsi da fare per sostenere la comunità dei fratelli che si trovava sempre più in difficoltà sotto il peso delle prevaricazioni.

Incise così, vicini al primo disegno, come poteva - era la prima volta - con segni simili agli altri visti sulla rupe, gli ideogrammi della propria mano, dello scalpello e della mazza che riteneva un modo tangibile per sollecitare l'Eterno Dio Onnipotente con un "io" l'ho fatto con le mie mani per Te, per ricordarti la mia famiglia ebrea.
Si disse ancora: la mano già indica l'autore; quindi, è come il mio sigillo e può sostituire tutto il primo geroglifico con la sola mano, ma in egiziano "essere" si dice I W e si può anche ottenere senza l'uomo seduto, con un Iod e con un uccellino, un piccolo di quaglia.
Io invece ho disegnato la mano e lo scalpello e una mazza che non sono un discorso sensato in nessun geroglifico.
In effetti, non sono io che mi do la vita, perciò la mazza anche se la muovo io è Dio che mi permette di muoverla e... poi una manina non è quella che porge il sole ad Achenaton nelle incisioni ad Amarna, lui credeva venisse dal suo dio unico.
Ora se la roccia è incisa vuol dire che c'è un'azione e si vede dal fatto che è incisa, perciò basta indicare lo scalpello, e la mazza si può evitare.
Però un uccellino che scavi la pietra non può essere!

Quella volta, tornato a casa raccontò tutto alla moglie che a proposito del pulcino di quaglia fece l'osservazione: "Mosè, ma il beccare dell'uccellino è come l'azione dello scalpello. Inoltre lui sta sempre lì e, goccia a goccia scava la pietra! Però d'ora in avanti puoi evitare di fare gli uccellini per scrivere la fonetica W, fai uno scalpello o meglio un semplice segno a bastone, è più facile e poi ti viene meglio ih, ih..."
Perciò per incidere "io sono" d'ora in poi Mosè fece la mano e il bastone e fu quel giorno che chiamò la moglie Zippora, cioè "uccellino", ma il suono gli ricordava anche lo zaffiro la pietra ideale, la più dura che conosceva per incidere le pietre.
D'altronde Zippora non aveva inciso il suo cuore?
Eppure, allora, il suo cuore era duro come una pietra.
Si, era stata capace, "come stilo di scriba veloce" e senza molto sforzo?
La sua Zippora era intelligente, fattiva, bella e buona, capace in tutto, un appoggio, un'amica, un dono di Dio, veramente la sua costola!

Mosè, diceva a se stesso, sei solo nel posto dove scrivi e non sei in tutti i posti com'è Dio, ma Dio che è onnipresente, se volesse scalpellare sulla roccia che è Lui che scrive come dovrebbe fare per farti capire?
È vero, Lui è inciso da tutte le parti, si presenta con l'esistenza stessa, ma su questa roccia non ci cresce nulla è arida e desolata, non c'è vita.
Poi si ricordò del segno egiziano di "campo " (I H W) in cui il determinativo è quello di una casa e si disse, ma questo è il campo per un uomo, ma per il Creatore il campo è tutto il mondo; perciò, se l'uccellino come dice Zippora è lo scalpello che usa Dio, questo deve operare in tutte le parti, cioè in tutte le direzioni.
Ecco, per me un disegno così, e tracciò i segni sulla sabbia, potrebbe rappresentare l'Onnipotente El-Shaddai, perché vedo I H W da dovunque lo guardo.
Disegnò un uccellino al centro che col becco avrebbe scalpellato e nelle 4 direzione principali verticali e orizzontali a croce 4 segni del campo e accanto a ciascuno l'Essere, il giunco fiorito.
Questo pare proprio il paradiso di cui diceva Amram, in oriente a Eden, un giardino con alberi piante frutti e animali tutto intorno e io con mia moglie... la coppia felice.
Si Lui è dovunque e la terra è il suo campo e io sono che ho bisogno di tutto al centro, ma Lui pensa ad ogni passero e tutto il mondo è un paradiso perché Lui è capace di crearlo nel cuore se sei in comunione con tua moglie che ti ama ponendo Lui al centro.
Per Dio il campo è il mondo e il mondo è il suo giardino.
Potrei mettere come determinativo anche il segno di giardino con la sua bandiera; cioè il mondo è IHW-NTR, il giardino di Dio.



"Penso troppo da egiziano!"
Poi, si disse, provo a ragionare lasciando da parte l'Egitto.
Certo! "Dio ama gli uomini e tra due persone in comunione Dio si fa presente."

Perciò faccio per lo Iod la mano, un pugno chiuso , per l'uccellino W lo scalpello, cioè un bastone e per i campi H del mondo due uomini così che pregano bastano, come li ho visti disegnati su quelle pareti.
In questo modo Mosè materializzò sulla pietra il segno dell'esistenza in comunione e lo disegnò da sinistra a destra come qui sotto:



Sulla terra non accadde nulla, ma nel mondo a venire, col consenso di Dio gli angeli ricominciarono a risistemare la scala che avevano usato per il sogno di Giacobbe, perché volevano vedere la gran preparazione che un uomo, che il Signore teneva da tempo sott'occhio, stava facendo per accogliere il Messia; cominciava a scrivere la Torah.
Il disegno di Dio aveva trovato l'uomo che l'avrebbe inciso per gli uomini.
Intanto Lui gli stava suggerendo Ha Shem, il Suo Nome.

Però passavano le stagioni e nulla sembrava accadere di nuovo.
Sempre una maggiore pace entrava nel cuore di Mosè che ringraziava Dio di quella vita sana, semplice e serena, della moglie e dei figli, lontano dal fare o dal ricevere oppressione.
Quando era presso quel monte s'alzava all'aurora, lodava Dio, poi all'alba iniziava a tracciare segni perché gli esercitavano la mente e lo facevano meditare.
Veramente solo il Creatore era spettatore della sua opera ed erano gli angeli che stavano evidentemente con lui che certamente l'ispiravano.
Individuò 22 segni con cui riusciva a scrivere tutti i suoni della lingua della sua famiglia ebrea, ma in modo che le parole fossero anche disegni che gli parlavano, come i geroglifici egiziani e gli dicevano di più.
La sua ispirazione era il Dio dei suoi padri e quando all'alba il sole si alzava ciò che gli veniva in mente lo scriveva.
Stolti gli Egiziani a pensare che Aton, il sole, sia Dio!
Però nel sole il nostro Dio ci ha dato proprio un bel segno.
È il Suo Nome che illumina!
Scelse la posizione migliore.
Visto che aveva pareti ampie in piedi su quei gradoni di roccia, d'arenaria pensò, di scrivere da destra a sinistra, perché cercava di non restare abbagliato dal sole, così la punta dello scalpello, che doveva sempre guardare, rimaneva all'ombra della sua mano sinistra che l'impugnava.
D'altronde, se il sole è lo scalpello di Dio, era come se Lui stesso colpisse e guidasse la mano.
Lo stilo d'opale era solo il prolungamento in terra del dito di Dio in cielo.
Così si sentiva in piena comunione con Lui.
Si mise, perciò, col sud alle spalle e con lo sguardo dove di notte ci sono le orse nel cielo che guidano i naviganti e le carovane nel deserto, nel pugno della sinistra lo scalpello che si era fatto con l'opale appuntito e ad est, la mano destra con la mazza, un bel ciottolo duro.
Si diede anche la spiegazione che in questa posizione era come se scrivesse proprio Dio che è luce e muove il Sole, e disegnò così da destra a sinistra.
In effetti Dio, lui non lo sapeva, l'aveva aiutato a scrivere il Suo Nome.



(Un rabbino 3200 anni dopo tradusse quei segni con Iahwèh, il tetragramma sacro, il Nome dei Nomi, l'ineffabile!)
Sentì che in quello che stava facendo era come guidato.
Le sue assenze da casa erano in genere di un quarto di luna, ma quando andava lontano anche di una mezza luna.
Al ritorno a casa, dopo un periodo di una mezza luna disse a Zippora di quel suo impulso di scrivere sulle pareti la propria storia, infatti, era tanto il tempo che era a disposizione in quelle lande mentre le pecore girovagavano.
Zippora, che era molto assennata, non lo dissuase, anzi lo convinse di non andare impreparato, perché scalpellare è faticoso e poi anche se uno si alza presto il caldo viene subito, poche sono le ore di lavoro, non si può proseguire e non si può cancellare, si suda molto e l'acqua è da ben dosare, in pieno giorno è opportuno stare fermi e all'ombra, se si trova.
Lei gli propose di fare a casa, quando rientrava, dei bozzetti su pelli conciate di pecora usando pennelli di setole e terre colorate che a lei stessa piaceva raccogliere, poi, a colpo sicuro, lui avrebbe potuto riportare i disegni definiti sulle pareti.
Anche lei partecipava a pieno titolo nel grande disegno.
Mosè l'ascoltò, temeva le critiche della sua costola e poi... aveva ragione.
Cominciarono a provare, e per raccontare la storia dovevano usare il minor numeri di segni possibili per rendere più facile il lavoro su pietra:

  • Io ero un misero; e misero chi è?
    Uno che vive nel campo come un uccellino.
    E disegnò così (I H) un giunco fiorito, il segno di campo e per determinativo un uccellino intirizzito.
    Ah! Ricominciamo con gli uccellini!
    Io sono un uccellino, mia moglie è un uccellino... siamo tutti miseri, ma Dio ci ama così.
    Zippora, per ora non lo riportare l'uccellino.
    Vediamo... ecco, facciamo così: uno che vive e prega si riconosce misero e ha bisogno di Dio.
    Allora, mano a pugno per I e uomo in preghiera per H!
  • Il Signore, ecco: lo disegno come già ho fatto l'altra volta:
    mano a pugno, orante, bastone, orante;



  • Mi ha fatto scappare. In egiziano è W H
    e come dimostrativo un altro uccellino spaurito.
    Allora, bastone per W, uomo in preghiera per H e l'altro uccellino...
    Aspetta, perché è solo determinativo!
Zippora cara, disegna prima tutto in egiziano, poi riportiamo i nostri segni.
Ecco:



Guarda che strano Mosè quanti uccellini!
Zippora, lasciane qualcuno da parte!

L'Eterno, benedetto Egli, sia non rideva così dal tempo d'Isacco e disse agli angeli "Li prendo tutti io i piccoli di quaglia e li rimanderò al tempo opportuno!"
Mosè disse a Zippora: "Guarda com'è strano; è venuto I H-I H W H-W H, sembra quasi che mi risponda, l'eco che mi fa compagnia quando sono solo.
Vedi I H-I H W H-W H, gli esterni e gli interni sono uguali; si ricava che il nome di IHWH il Signore significa anche salvatore perché Il misero fa scappare e far scappare i miseri è salvare!
I'HWH è proprio il Suo Nome Santo!
"Sono stato liberato come un uccello dal laccio del cacciatore, il laccio s'è spezzato ed io sono scappato " e sono scampato!
È stato proprio così Zippora!
"Il Signore protegge gli umili, ero misero, ma anche dentro, ed egli mi ha salvato."
Poi riguardò il disegno di come aveva pensato di rappresentare il suo Dio con segni egiziani.



Zippora lo sai che mi viene in mente?
Guarda ti faccio vedere come si scrive in egiziano "parenti".



Vedi è un pezzo del cartiglio del mio Dio!
Zippora disse: non mi dirai che il tuo Dio è un parente!
Mosè profetando disse: per me è Padre, Madre e Fratello.
In cielo si fece festa, perché giù in terra si cominciava ad intravedere di: Iahwèh e del Messia.
In quello stesso istante Mosè pensò: "Chissà, che sta facendo Dio di mio padre con i miei fratelli in Egitto?"

Zippora e Mosè avevano imparato ad amarsi ed a coltivare, scrivendo sulle pelli e sulla roccia, la parola di Dio.
Mosè un giorno disse a Zippora a proposito del bastone: "Sai che sei stata proprio ispirata a suggerirmi di sostituire col segno del bastone gli uccellini?
Pensa, che in Egitto al posto dell'uccellino si può disegnare anche uno svolazzo così e che la parola HeQA, indicata col geroglifico che definisce il igovernarei del Faraone, che pare uno svolazzo allungato ed è un bastone di pastore.
Ora, guarda che succede se prendo il disegno egiziano del Signore e ci metto il mio bastone con lo svolazzo come W al posto dell'uccellino posso leggerlo due volte e dire che I'HWH i miseri governa nel mondo."
Mosè continuò a pensare ai bastoni e un giorno disse a Zippora: Lo sai che in egiziano un bastone, un picchetto, significa verticalità, dirittura, asse e stabilità? È la parola HeM indica un servo e il Faraone è proprio il "servo" per antonomasia, il primo servo del suo popolo, e non finisce qui, in egiziano lo stesso bastone rovesciato in giù si dice MeDU ed indica "la parola".
Se prendo il disegno egiziano del Signore e ci metto questi bastoni al posto dell'uccellino W ottengo:
  • Il Signore è il Servo del mondo
  • Il Signore è la Parola del mondo
Una serena notte di primavera, mentre se ne stava sdraiato su una pelle di pecora ai margini sopraelevati di un torrente secco tra pareti di roccia nelle vicinanze di quel monte vide provenire da una gola aldilà dell'uadi i riverberi d'un bagliore d'un fuoco e ombre di uomini che venivano a stagliasi sulla roccia alle sue spalle.
Attraversò l'asciutto canalone, s'avvicinò, e sentì voci e suoni di piccoli tamburi e tintinnii di piccoli sistri.
Attorno a un grande falò danzavano.
Era tardi, ma c'erano anche i bambini e ben svegli.
Era una famiglia, tutti felici vegliavano.
Si domandò: cosa ha di diverso questa notte da tutte le altre notti?
Tutti svegli, era proprio una festa di famiglia.
C'era la luna piena che illuminava pallidamente la scena.
Lui che ci vedeva benissimo osservò tutto attentamente.
Avevano alzato una grande tenda di pelli, pareva scura come quella dei beduini, ma di notte era difficile capirne il colore, davanti avevano acceso due falò, in mezzo avevano disposto le braci man mano che si producevano e un bellissimo agnello maschio nato nell'anno, ma ben pasciuto, stava arrostendo tutto intero, infilato in due pali in croce per girarlo facilmente in tutte le direzioni e cuocerlo a puntino.
Loro, uomini, donne, anziani e bambini, in tutto una decina, stavano seduti in circolo attorno tra i fuochi e la tenda davanti all'agnello e sopra pelli disposte a terra si capiva che c'erano ciotole e cibi. Di lato, vicino alla tenda un modesto gregge dormiva in un piccolo recinto di quattro picchetti e un canapo, e vicino 3 dromedari e 3 asini.
Sentì addirittura il profumo inequivocabile del vino nelle ciotole per la leggera brezza che veniva dal canalone.
Era certamente gente pacifica, si avvicinò.
Diede una voce, perché in quei posti è bene avvertire che s'arriva per non mettere timore alla gente e non aver brutte sorprese.
Si diceva spesso "Fai agli altri come vuoi facciano a te!"
Almeno lui faceva così, e lo faceva agli altri perché gli piaceva che lo facessero a lui, specialmente quando stava girato a picchiettare sulla parete e non poteva accorgersi d'altro.
E poi, farlo a distanza è buona norma, si può sempre avere più possibilità di fuga in caso di malaparata.
Il più anziano, che evidentemente aveva apprezzato la cosa, gli rispose e lo chiamo: "straniero, vieni a far festa con noi".
Strano, ma Mosè aveva compreso, era un dialetto dello stesso ceppo del linguaggio della sua famiglia ebrea.
Aveva scandito le parole lentamente e lui aveva capito tutto.
Il vecchio, più o meno della sua età, pure arzillo e ben messo come figura, si chiamava Efer, disse Benedetto Dio che ci regala un ospite, vieni accanto a me.
Erano tre uomini tre donne e cinque bambini, lui e sua moglie, due figlie giovani coi loro mariti s, quattro nipoti e un giovanetto di 12 anni l'ultimo di Efer.
Attorno al fuoco, con un pezzo d'arrosto, alcuni datteri e fichi secchi con focacce d'acqua e farina fatte lì per lì cotte su pietre arroventate e una coppa di vino versato da una giara di coccio che gli dissero veniva addirittura dalla terra di Caanan, parlarono a lungo.
Apprese da Efer che era un discendente di Medan, fratello di Median, e faceva risalire l'origine ad Abramo dalla parte della moglie Chetura, insomma un Apirù.
Erano pastori, ma non con un posto fisso per tornare, ma nomadi per le vaste aree del Negheb, proprio ove aveva abitato per quasi tutta la vita Isacco.
Alcune volte, diceva, si spingevano fino in Caanan, terra fertile e meravigliosa, piena d'ogni ben di Dio... di latte e miele, intercalava.
Aveva avuto molti figli maschi, che si erano installati appunto in Caanan tutti sposati e queste due, le uniche figlie, erano rimaste con lui con i mariti assieme all'ultimo suo rampollo Reu.
Come tutti gli anni, liberi, da generazioni e generazioni, stavano festeggiando la luna nuova di primavera secondo la tradizione che avevano ricevuto dagli antenati tutti pastori; era la festa diceva "'ahad gadi", e un capretto portava fortuna, "gad".
Mosè si ricordò, sì, fu un agnello il segno della liberazione che Dio aveva promesso ad Abramo ed alla sua discendenza sostituendolo a Isacco sul monte Moria!
Era una festa per le nuove nascite degli agnellini che arricchivano il gregge.
Dio rinnovava la sua benedizione con il segno della vita che appunto in primavera porta i nuovi figli e le gemme di tutto.
Ognuno raccontava la propria storia.
Mosè parlò e narrò la propria, raccontò dei problemi in Egitto per i suoi fratelli, disse delle sue incisioni sulla parete e con una torcia fece vedere quella più vicina.
L'ascoltarono attentamente e lodavano anche loro El Shaddai.
El Shaddai, sì, fa opere grandi, è il liberatore degli oppressi!
Anche loro, poveretti, erano stati salvati nelle carestie e venivano guidati da un pascolo all'altro, anche loro si ricordavano che Abramo era stato in Egitto, e anche loro erano stati costretti certe volte a ricorrere ai granai del faraone.
Fu così che gli svelarono il segreto di una sorgente sotto il monte, ma lui sapeva che solo se uno era ben accetto a El-Shaddai sgorgava acqua purissima.
Si dettero convegno per l'anno successivo nello stesso luogo nella settimana della prima luna di primavera.

Dopo, Mosè meditò sul fatto.
I pastori avevano letto il suo disegno del bastone da pastore e n'avevano tratto le conseguenze.
Il bastone di Dio li guida da un pascolo all'altro in mezzo ai campi per trovare la vita e loro danzano intorno felici.
"Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, da un pascolo all'altro mi fa riposare", IHWH, è pieno di significati!
La vita umile che conduceva ed il pensare al Signore ed ai possibili sviluppi del Suo Nome lo resero sempre più semplice e lo fecero entrare nella lode.
Mosè allora si rivolse al Signore col cuore pieno di gratitudine e chiese con determinazione e fede, certo che in quel momento il Dio dei cieli e della terra avrebbe accolto la richiesta.
Invocò la liberazione di tutti quei miseri che erano in Egitto sotto l'oppressione ed ebbe l'ardire d'elevare questa preghiera con tutte le forze:

"Dio Onnipotente ed Eterno, benedetto è il Tuo Nome,
ricordati delle promesse.
Tu, e non io, hai suggerito ad Abramo nostro padre
sul monte il Signore provvede.
In nome dei miei padri, fai sentire all'Egitto che sei l'Unico.
Ricongiungimi con loro.
Libera quei miseri per la prossima Pasqua
e a Te solo sarà onore e gloria nei secoli eterni. Amen."

Dio che comanda l'ascolto, l'ascoltò, e con le schiere degli angeli che gli presentavano la preghiera di Mosè si rallegrò e disse: Mosè il mio condottiero è pronto, non può stare più fermo. State pronti anche voi per far festa!
E il Signore sul Horeba parlò a Mosè e disse (Esodo 3,14):

IO SONO... e Mosè comprese, perché Dio in tutti quegli anni nel matrimonio con Zippora e nel silenzio del deserto, meditando sui segni delle pareti delle rocce aveva preparato Mosè, perché Lo riconoscesse e potesse poi comprendere le tavole che Dio gli avrebbe inciso sulla pietra, ma che già gli aveva inciso nel cuore.

Da dei fuoriusciti ebbe la notizia: è morto Ramsete II, aveva regnato 67 anni!
Mosè dopo 40 anni d'esilio tornò dai suoi, aveva 80 anni e c'era un nuovo faraone.
Fu una Pasqua importante quella dell'anno dopo; era un anno di grazia, era un giubileo celeste preparato con cura da tempo.
"Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne diede pensiero." (Esodo 2,23b-25)
L'anno dopo Mosè tra segni e prodigi riuscì a portare via dall'Egitto il popolo fino a quel monte.
Mosè, poi, fece sgorgare l'acqua dalla roccia.
Eppure non aveva ancora piovuto da tempo e lui non credeva che d'acqua ce ne potesse essere, ma Dio glielo aveva suggerito, aveva insistito, e lui, testardo, non attese, volle battere la roccia col bastone.
Bastava che parlasse... la roccia d'Israele avrebbe risposto senza essere colpita!

Su quel monte dopo 40 giorni e 40 notti di colloquio con Lui "Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio" (Esodo 31,18)
C'era in quelle tavole il codice della scrittura con l'alfabeto sacro, la stessa che aveva ispirato a Mosè le cui lettere erano scritte sul trono prima dell'inizio dei tempi.

a.contipuorger@gmail.com

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